Riportiamo l’intervento del Dr. Claudio Andrea Gemme, Presidente Gruppo Tecnico Industria e Ambiente Confindustria, presso Ambiente Mobile – Cisambiente 28 giugno 2018 Villafranca di Verona (Museo Nicolis)
È un vero piacere per me essere qui oggi, in questo museo ricco di tradizione che, nel raccontare la storia e l’evoluzione delle quattro e delle due ruote, testimonia anche l’eccellenza italiana in campo industriale, tecnologico, artistico e sportivo.
Per concludere questo importante pomeriggio di confronto e discussione su un tema fondamentale come la salvaguardia ambientale, vorrei affrontare l’argomento della sostenibilità non solo come “dovere”, ma anche e soprattutto come “opportunità” di sviluppo economico ed industriale.
Un impegno efficace e funzionale per uno sviluppo sostenibile, anzitutto, non può che avere una dimensione sovranazionale e multilaterale, senza la quale ogni sforzo per raggiungere gli ambiziosi obiettivi che ci siamo posti resterà carta bianca.
Lo abbiamo visto ormai tre anni fa, con la sottoscrizione dello storico Accordo di Parigi sul clima, e poi con l’approvazione dell’Agenda ONU 2030, un Documento importante che declina tutte le dimensioni dello sviluppo sostenibile – quella economica, quella sociale e quella ambientale – in obiettivi puntuali e concreti, ma anche molto ambiziosi.
Per attuare questi obiettivi, sono state discusse e approvate negli ultimi anni a livello europeo una serie di fondamentali provvedimenti legislativi – dalla direttiva ETS al Pacchetto rifiuti, dal Clean Energy Package alla recentissima “Strategia sulla plastica” – che dimostrano la ferma volontà del legislatore europeo di mantenere la leadership in materia di sostenibilità.
Sostenibilità che – e ciò è evidente dall’approccio con cui queste misure sono state proposte – passa per una integrazione virtuosa tra politiche ambientali e politiche per lo sviluppo. Non può esserci tutela dell’ambiente, infatti, senza prevedere una pianificazione organica di sviluppo dei territori, attraverso l’integrazione delle filiere produttive e il pieno coinvolgimento degli attori economici, dai produttori ai consumatori, dagli imprenditori alla società civile.
In questo contesto, l’industria italiana può contare su un’esperienza consolidata, che guarda ormai da tempo al tema della sostenibilità come una opportunità di sviluppo e non come un vincolo alla crescita, anzi, facendo della sfida ambientale uno dei capisaldi della propria strategia di sviluppo.
Anche l’Istat, in occasione della giornata mondiale della Terra, lo scorso 22 aprile, ha riportato una infografica in cui viene stimato che dal 2015 gli investimenti industriali per la protezione dell’ambiente sono cresciuti del 26%[1], rispetto all’anno precedente.
Il sistema industriale può, infatti, contribuire al raggiungimento di obiettivi di sostenibilità ambientale attraverso l’integrazione di produzioni di base con lo sviluppo di nuovi prodotti, in un’ottica di rafforzamento delle filiere produttive nonché attraverso l’adozione di tecnologie volte a una maggiore compatibilità ambientale dei processi produttivi.
Per quantificare i possibili benefici sociali ed economici di questi nuovi modelli di business vorrei citare alcuni dati dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, la quale, nel suo ultimo rapporto World Employment and Social Outlook 2018: Greening with jobs, ha stimato che la transizione verso un’economia verde, basata sull’obiettivo stabilito con l’Accordo di Parigi del 2015 per limitare il riscaldamento globale a 2°C rispetto ai livelli pre-industriali, favorirà un incremento netto di 18 milioni di posti di lavoro entro il 2030.
Più in particolare, il rapporto afferma che l’adozione di un’economia circolare basata su riutilizzo, riciclaggio, rigenerazione e riparazione di beni, creerebbe circa 6 milioni di opportunità lavorative a livello globale, rispetto ad una prospettiva business-as-usual,[2]soprattutto nei settori dei servizi e della gestione dei rifiuti.
Anche il nuovo Pacchetto di proposte sull’economia circolare, su cui recentemente è stato raggiunto l’accordo in Europa, presenta, secondo la Commissione europea, notevoli potenzialità nel portare risparmi per le aziende quantificabili in 600 miliardi all’anno, con 140 mila nuovi posti di lavoro e un taglio di 617 milioni di tonnellate di CO2 entro il 2035.
Pertanto, considerando queste prospettive, il Pacchetto non può che essere guardato con interesse dall’industria italiana, contando, contemporaneamente sul dato fattuale per cui gli indirizzi contenuti nelle direttive europee non rappresentano una novità assoluta per le nostre imprese.
Dobbiamo infatti tener presente che l’industria italiana, povera di materie prime, ha sviluppato una dote innata nel “fare tanto con poco”, valorizzando quanto più possibile i residui produttivi e di consumo, consolidando perfomance che ci hanno portato ad essere leader europeo nel riciclo industriale, con 56,4 milioni di tonnellate avviate a riciclo nel 2014, secondi solo alla Germania.[3]
Ovviamente, tutto ciò ha portato ad evidenti effetti benefici indiretti, tra cui la minor dipendenza dall’estero nell’approvvigionamento di materie prime nonché minore impatto in termini di emissioni climalteranti, derivanti proprio dalla riduzione della fase di approvvigionamento.
Pertanto, con il quadro regolatorio in continuo divenire, è necessario consolidare tali performance, valorizzando – e non contenendo – il contributo dell’industria. In questo senso, riteniamo che il driver di crescita non debba essere incentrato – esclusivamente – su un sistema di regolazione vincolante (attraverso soprattutto la determinazione di obiettivi numerici, limiti e divieti), bensì su meccanismi che incentivino condotte virtuose sotto il profilo ambientale.
A tal proposito, in occasione delle recenti Assise, Confindustria ha inserito, tra le proprie priorità di policy, un confronto con le istituzioni per utilizzare in maniera più efficiente le risorse ambientali, attraverso la completa realizzazione di un modello economico “circolare” su base nazionale.
In particolare, Confindustria ritiene necessario dare concreta attuazione ai recenti intendimenti comunitari sull’opportunità di razionalizzare ed efficientare il consumo di risorse, supportando il mondo produttivo nel reimpiego degli scarti di produzione e consumo all’interno dei propri processi industriali
Occorre superare l’approccio conservativo da parte della PA e della società civile attraverso un rinnovato dialogo e una corretta comunicazione sull’importanza dell’industria come incubatore e diffusore di tecnologie in grado di rendere valorizzabile quello che altrimenti verrebbe destinato a smaltimento in discarica.
In tale contesto, acquista valore centrale anche il Green Public Procurement.
Acquistare verde’ significa, infatti, acquistare un bene o un servizio che tiene conto degli impatti ambientali che questo può avere nel corso del suo ciclo di vita, dall’estrazione della materia prima, allo smaltimento del rifiuto.
Considerando che gli acquisti pubblici rappresentano in Italia circa il 17% del PIL e nei Paesi dell’Unione europea circa il 14%, è evidente come rappresenti uno dei principali strumenti adottati per mettere in atto strategie di sviluppo sostenibile. Per questo motivo, non può che rappresentare un ulteriore stimolo per le nostre industrie di farsi portavoce nell’ambito del passaggio da una economia lineare ad una circolare, sostenibile e foriera di nuove opportunità.
Raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione dell’economia, compatibilmente a quelli di sviluppo industriale del Paese, è l’altra grande sfida che il nostro paese dovrà affrontare.
A livello europeo, i pilastri che regolano la riduzione delle emissioni di CO2, il cui obiettivo è di – 40% rispetto ai livelli del 1990, sono: il sistema ETS (Emission Trading System) e l’Effort Sharing, in virtù del quale l’obiettivo di riduzione vincolante è assegnato dalla Commissione europea agli Stati membri (per l’Italia -33% al 2030).
Per quel che riguarda i settori ETS, va scongiurata l’introduzione di meccanismi di tipo impositivo (cd. carbon tax) in sostituzione o aggiunta all’ETS, che, oltre a penalizzare le fonti low carbon, quali il gas naturale (che rappresenta la cd. risorsa di transizione), determinerebbero un pesante aggravio di costi per il sistema economico nazionale e, quindi, perdita di competitività per il settore produttivo e per i consumatori italiani. L’implementazione del sistema ETS rappresenta anche il quadro all’interno del quale sviluppare le politiche di sostegno alle fonti rinnovabili e all’efficienza energetica che, peraltro, rappresentano settori su cui l’Italia ha definito alcuni obiettivi nell’ambito della Strategia Energetica Nazionale.
Secondo quanto riportato nel nostro Documento presentato in occasione delle Assise di Verona dello scorso febbraio, le suddette politiche di sostegno inciderebbero sul sistema economico nel periodo 2018-2030 in maniera significativa: l’ammontare degli investimenti cumulati al 2030 raggiungerebbe i 543 miliardi di euro, con un conseguente incremento del valore della produzione industriale di 1.019 miliardi di euro (867 miliardi di euro al netto dei beni intermedi importati), un’occupazione più elevata di 5,7 milioni di ULA e un incremento del valore aggiunto di 340 miliardi di euro. Gli effetti netti sul bilancio statale – ritenuti positivi per 69,1 miliardi di euro cumulati al 2030 – sommati a quelli sul sistema energetico, in termini di riduzione della fattura energetica e CO2 risparmiata – stimati in 37,7 miliardi di euro – portano a stimare un impatto complessivo positivo sul sistema economico per circa 106,8 miliardi di euro cumulati nel periodo 2018-2030.
Un altro settore per noi strategico è, poi, quello delle bonifiche e delle reindustrializazioni, dove l’innovazione tecnologica può garantire opere di risanamento e riqualificazione ambientale efficienti e di qualità che rappresentano opportunità di crescita non solo ambientale, ma anche sociale ed economica per le imprese e le comunità territoriali, senza dimenticare gli importanti benefici in termini di tutela della salute.
Per dare la cifra di quanto sia importante il fenomeno, Confindustria, nel suo rapporto “Dalla bonifica, alla reindustrializzazione” del 2016, ha stimato che, a fronte di un investimento complessivo di 10 miliardi di euro per il risanamento delle aree pubbliche e private (una superficie complessiva di 46.000 ettari), si avrebbe un aumento del livello di produzione di oltre 20 miliardi di euro, ed un incremento del valore aggiunto complessivo di circa 10 miliardi di euro, nel giro di soli cinque anni, con un aumento di circa 200 mila unità di lavoro standard.
E’ con grande orgoglio che noi abbiamo messo al servizio del Paese il nostro know-how tecnologico e le nostre buone pratiche nell’ambito di una collaborazione fattiva con l’Arma dei Carabinieri, in occasione della sottoscrizione di un importante Accordo di programma siglato in Confindustria per quanto riguarda il settore delle bonifiche ambientali.
Questo driver deve, pertanto, rappresentare un’opportunità da non sprecare per il rilancio e la reindustrializzazione di tutte quelle aree del nostro territorio che meritano una seconda possibilità in un’ottica di sostenibilità ambientale e benessere per le popolazioni locali.
In conclusione, auspichiamo che l’intero sistema Paese, fatto non solo di istituzioni, ma anche di comunità civile, sia pronto a raccogliere le sfide che arrivano dall’Europa e dal mondo, mettendo l’industria nelle condizioni di agevolare tale processo che, come sappiamo, è in grado di generare benefici su tutti i livelli e per tutte le parti coinvolte.
[1] https://www.istat.it/it/files/2018/04/giornata-mondiale-della-terra.pdf
[2] World Employment and Social Outlook 2018: Greening with jobs: https://www.ilo.org/weso-greening/documents/WESO_Greening_EN_web2.pdf
[3] Rapporto GreenItaly 2017